Gli operatori della sanità sono in prima linea in questa sfida pandemica che sta scuotendo dalle fondamenta la struttura stessa della nostra società. Abbiamo cercato di fornire alcune testimonianze del loro impegno quotidiano.

Quando il 18 marzo del 2020 la Cancelliera Angela Merkel ha indirizzato il proprio messaggio alla Germania dicendo che “dalla seconda guerra mondiale ad oggi non c’è stata nessun’altra sfida nei confronti del nostro Paese nella quale tutto sia dipeso così tanto dalla nostra azione solidale”, molti hanno reagito in maniera scettica e critica. La realtà attuale, purtroppo, ha dato ragione alle infauste previsioni della Cancelliera con una pandemia che, per la prima volta nella storia, coinvolge tutto il mondo e sta profondamente trasformando le nostre vite. E’ attraverso questa lente che va interpretata l’emergenza sanitaria in cui ci troviamo. Nonostante l’impegno profuso negli ultimi 12 mesi le vittime in Italia vanno verso quota 100.000, i positivi sono circa 400.000 ed i contagiati superano i 2,7 milioni.

A livello provinciale purtroppo la situazione non è migliore, con una sfida senza precedenti per la sanità altoatesina. È in questo quadro che va ricordato il grande impegno delle donne e degli uomini che lavorano nella sanità, operatori che da oltre un anno sono sotto pressione senza la possibilità di recuperare energie. I collaboratori dell’Azienda sanitaria positivi al test sono stati 1.846, di questi oltre 1.400 sono guariti e più di 400 sono tuttora malati; i medici di medicina generale e pediatri di libera scelta ammalati sono stati 53, 40 sono guariti. La luce in fondo al tunnel è rappresentata dall’avvio delle vaccinazioni che dopo gli operatori della sanità stanno coinvolgendo gli ultraottantenni, le persone con malattie croniche e gli operatori della scuola. Negli articoli e nelle interviste che seguono abbiamo cercato, pur con i limiti oggettivi rappresentati da una pandemia che ha coinvolto la società in tutte le sue articolazioni, di fornire la testimonianza di alcune persone che operano in prima linea nella sanità altoatesina.

Patrizia Raffl, Reparto Isolamento COVID 19 Merano

Lei opera nel reparto Covid dell’Ospedale di Merano. Com’è la situazione?
“Purtroppo attualmente nel reparto Covid dell’Ospedale di Merano assistiamo ad un aumento dell’afflusso di pazienti e le condizioni generali dei pazienti che giungono al Pronto Soccorso sono piuttosto serie. Hanno dispnea, cioè difficoltà respiratorie, hanno bisogno di ossigeno e complessivamente si tratta di pazienti veramente complessi. Al momento (l’intervista si è svolta a febbraio) nell’ospedale di Merano ci sono tre reparti normali di pazienti Covid ed una terapia intensiva. I letti disponibili nei reparti normali Covid sono 50, da due settimane ne sono occupati sempre più o meno 45 ed in terapia intensiva ci sono 9 posti per pazienti Covid positivi ed attualmente abbiamo 8 letti occupati”.

Come ha vissuto l’inizio di questa pandemia in qualità di medico in prima linea?
“Ricordo benissimo l’inizio, a fine febbraio quando sentivamo che c’era questa epidemia in Asia. Poi è stata dichiarata pandemia, abbiamo sentito anche le esperienze della Lombardia, nonostante ciò, sinché non abbiamo avuto i primi casi in Alto Adige, pensavamo che la cosa non ci avrebbe coinvolti. Poi da un momento all’altro la terapia intensiva di Merano è diventata una terapia intensiva per pazienti Covid. Pochi giorni dopo il reparto di riabilitazione, dove lavoravo come medico, è stato trasformato in reparto di isolamento per pazienti Covid. All’inizio era tutto ancora da organizzare. Non conoscevamo ancora bene il virus. Dovevamo adibire i reparti, il personale doveva essere formato, dovevamo procurarci i dispositivi di protezione individuale ed era ancora tutto da chiarire. Il personale in questi primi mesi caldissimi ha fatto anche 200 – 300 ore di straordinario. C’erano operatori che non vivevano più con i loro familiari per paura di portare a casa il coronavirus. Poi abbiamo visto che i lavoratori dei reparti Covid erano tra quelli che avevano meno contagi perché entrando in reparto si proteggevano e, vedendo i pazienti, erano forse anche più consapevoli del rischio anche quando uscivano dal lavoro. In marzo ed aprile io ho lavorato ogni giorno dal mattino sino a sera tarda, il fine settimana e le notti. Poi d’estate c’è stato un po’ di rallentamento ed in ottobre la nuova ondata ci ha sorpresi. Ci aspettavamo un aumento dei numeri in novembre o dicembre, ma non già in ottobre. Improvvisamente abbiamo dovuto riaprire i reparti che in estate avevamo nuovamente trasformato in geriatria. Ora siamo in una situazione normalizzata, il Covid fa ormai parte della nostra vita. Sia fuori che dentro sentiamo solo parlare del Covid ed effettivamente siamo molto stanchi perché più o meno è sempre lo stesso personale che lavora in questi reparti”.

Quali sono stati i momenti più difficili sotto il profilo professionale ed umano?
“Quando è stato aperto questo reparto all’inizio avevo dei contagi nel mio ambito privato ed anche qui al lavoro e oltre a preoccuparmi del decorso di queste persone ammalate temevo di essermi contagiata, cosa che poi non è avvenuta. In quel mese mi sono allontanata dalla famiglia per non portare a casa il virus e come altri colleghi ho vissuto fuori casa. Una situazione molto difficile perché vivere esperienze brutte, ma poi ritornare a casa e vedere i bambini e mio marito consente di ricaricare le batterie e questo mi mancava molto. Poi purtroppo anche i casi che abbiamo visto in questo reparto mi hanno colpita. C’erano anche pazienti che prima del contagio vivevano benissimo e che poi sono morti qui, senza i loro cari. Ricordo molto bene, ad esempio, quando ho dovuto chiamare la figlia del primo paziente che è morto nel reparto. Mi veniva la pelle d’oca, dovevo raccontare che il padre stava per morire, e la figlia non poteva venire a confortarlo. Era una situazione irreale che nessuno di noi poteva immaginarsi. E noi eravamo in mezzo a tutto ciò”.

Quali i momenti positivi?
“Ho visto la gratitudine dei pazienti ed anche dei familiari. Abbiamo sempre cercato di mantenere i contatti attraverso il telefono e le videochiamate. Mi ha colpita anche la solidarietà di quei medici ed infermieri che si sono messi volontariamente a disposizione per collaborare in questa difficile situazione. La collaborazione ovviamente c’è sempre, ma questo tipo di contributo ci ha dato molto sostegno, ci siamo confrontati a vicenda nelle decisioni difficili ed abbiamo trovato una soluzione insieme”.

La vaccinazione può rappresentare un’arma decisiva per uscire dalla crisi?

“Io credo di sì, chiaramente il tempo per lo sviluppo e gli studi era poco. Ovviamente vedremo in futuro quello che succederà. La grande speranza del vaccino è quella di ridurre sicuramente i sintomi se si contrae il Covid e di ridurre drasticamente i contagi. Personalmente mi sono vaccinata, senza avere effetti collaterali. Per me, proprio per la mia formazione di fisiatra della riabilitazione, che dopo la fase acuta devo assistere le persone che hanno avuto un danno, la prevenzione primaria è senz’altro la cosa più importante. Tutto ciò che riesco a prevenire, dopo non devo curarlo. Dopo questo primo anno di pandemia probabilmente siamo tutti un po’ stanchi e forse non vediamo più la necessità di continuare con le misure protettive. Io però vedo quotidianamente cosa può succedere se non rispettiamo le regole. Ho visto tanti pazienti che stavano veramente male ed anche per rispetto nei loro confronti e dei loro familiari, di tutte le persone che sono decedute chiedo a tutti di continuare ad agire insieme, di essere solidali, di non pensare solo a sé stessi. Assieme troveremo la soluzione, ce la caveremo ed usciremo da questa situazione. E’ importante stare uniti”.

Il reparto Covid dell’Ospedale di Merano ha organizzato, anche per iniziativa di Patrizia Raffl, un video con la colonna sonora di “Jerusalema”, facilmente reperibile su YouTube, che è stato molto apprezzato sul web ed ha avuto milioni di visualizzazioni. “E stata una cosa improvvisata – ci ha detto Patrizia Raffl – ne ho parlato con alcune colleghe e nel giro di pochi giorni abbiamo realizzato tutto con l’aiuto di una società di videoproduzioni che ci ha aiutato gratuitamente. È stato un bel momento nel quale ci siamo impegnati tutti assieme e ci siamo sentiti ancora di più una bella squadra unita”.

Elisabetta Pagani,  direttrice del Laboratorio di microbiologia e virologia dell’Azienda sanitaria

Uno degli aspetti importanti della lotta alla pandemia è l’esecuzione rapida e affidabile di test PCR. Ovviamente un ruolo determinante in questo contesto viene svolto dal Laboratorio di microbiologia e virologia dell’Azienda sanitaria, che ha sede in via Amba Alagi a Bolzano, ed è diretto dalla dottoressa Elisabetta Pagani. Alle spalle della sua scrivania i campeggia una grande fotografia che la ritrae durante la maratona di Berlino, mentre attraversa il traguardo davanti alla porta di Brandeburgo. È forse questa l’immagine che rende, meglio di molte parole, la tenacia che la direttrice e tutto il suo staff dedicano alla lotta contro la pandemia da oltre un anno.

In effetti il loro lavoro è iniziato già il 20 gennaio 2020, circa un mese prima dell’identificazione ufficiale dei primi casi in Italia. “Abbiamo ricevuto l’allerta dall’Istituto superiore di sanità sulla necessità di organizzarci per una diagnostica per la ricerca del virus Sars-Cov2 esattamente il 20 gennaio 2020. Da quel momento il nostro ruolo è stato quello di mettere a punto ed organizzare delle metodiche specialistiche in biologia molecolare che vanno a cercare la presenza proprio del genoma dell’RNA virale per la ricerca di Sars- Cov 2. Questa è stata la prima attività in assoluto e non è stato semplice perché non c’era nulla. A parte i protocolli di autorevoli centri di riferimento come il Robert Koch Institut, i CDC – Centers for Disease Control and Prevention americano, di fatto di preconfezionato non c’era nulla.
Inizialmente c’era anche tutto il problema di prevedere la parte degli approvvigionamenti legati al fatto di acquisire i reagenti, i materiali necessari all’effettuazione delle analisi, ad aumentare il personale specialistico, ad accogliere l’invio dei campioni da parte dei laboratori limitrofi. La biologia molecolare e un ‘attività molto specialistica, i laboratori degli altri Comprensori hanno dei settori di microbiologia in cui fanno delle attività di base, ma la biologia molecolare era comunque concentrata qui. Quindi all’inizio c’è stato tutto un lavoro di decisone su chi fa che cosa, partendo dal presupposto che c’è bisogno di personale iper-specialistico h24. Quindi si è trattato sia di avere un ruolo di organizzazione della diagnostica che di organizzazione strategica dell’attività sul territorio, in collaborazione con i laboratori degli altri comprensori e del comprensorio di Bolzano che si sono messi a disposizione”.

Un’attività intensa…

Il numero di test che vengono eseguiti quotidianamente non è costante, si va dai 1300 – 1500 ai 3000 PCR al giorno. Abbiamo avuto un picco di 4.036. Possiamo contare anche su alcuni laboratori convenzionati in modo tale da avere la sicurezza di poter garantire sempre tutti i test, perché paradossalmente ci troviamo nella situazione in cui abbiamo un laboratorio molto attrezzato dal punto di vista della strumentazione e dei reattivi, ma manca il personale specialistico. Benché siano stati previsti i posti in pianta organica, siano stati pubblicati gli avvisi, le persone vengono, stanno qui un po’, poi, principalmente per la questione del bilinguismo, nel momento in cui trovano un posto fisso da qualche altra parte fanno una scelta legata al posto fisso, visto che tutto il mondo è alla ricerca di tecnici specializzati”.

Quali sono, a suo giudizio, gli aspetti più preoccupanti della pandemia?
“La mia preoccupazione riguarda soprattutto il livello di stanchezza di tutti i collaboratori, di tutti i colleghi ospedalieri e del territorio. Dopo oltre un anno dallo scoppio di questa pandemia vedo tanta stanchezza, nonostante questo riusciamo ancora a mantenere un clima sereno, produttivo e propositivo nella risoluzione dei problemi, ma certi ritmi, certe situazioni psicologiche si possono sopportare o comunque gestire per periodi limitati. La mancanza di personale non permette un ricambio tale per cui si riesce realmente a staccare e a riprendersi. Ma anche un’altra cosa mi preoccupa: questo generale non riconoscimento dell’autorevolezza dei veri tecnici, o forse la difficoltà a riconoscerli. Spesso la scena viene occupata dai social media, dai forum sul web, quindi è poi difficile per la popolazione capire che cosa sta succedendo. D’altro canto, visto il carico di lavoro, i tecnici hanno purtroppo poco tempo per dedicarsi alla comunicazione”.

Come valuta il ruolo della vaccinazione anti Covid?
“La vaccinazione è una delle conquiste più importanti dell’umanità, su questo non c’è alcun dubbio. Ha un ruolo fondamentale e imprescindibile. Non si tratta di giudizi, ma di evidenze scientifiche; gli studi clinici pubblicati indicano le efficacie che sappiano essere elevate. È l’unica arma potente cha abbiamo nei confronti del virus e dobbiamo esserne consapevoli: come abbiamo visto, attenersi alle misure di contenimento note non è sempre semplice. La vaccinazione sarà tanto piè efficace quanto più arriveremo a una percentuale elevata di persone vaccinate. Questo dipende veramente solo da noi. Per quanto riguardo all’efficacia i dati sono evidenti. La cosa fondamentale è vaccinare il prima possibile più persone in modo tale che ci sia un muro invalicabile per il virus. I vaccini attuali sono più che sicuri, eccezionali sotto il profilo tecnologico e dell’efficacia. Lo dico da ex ricercatrice e i primi dati israeliani lo confermano.

Intervista al dottor Patrick Franzoni, del coordinamento medico Covid 19

Dottor Franzoni, lei è responsabile del Progetto “Monitoraggio Alto Adige”, può illustrarne brevemente le finalità?
A novembre dell’anno scorso ci siamo trovati in una situazione con un forte sovraccarico dei nostri 7 ospedali a quel punto il direttore generale Zerzer assieme all’assessore Widmann hanno pensato di mettere in pratica una nuova strategia per cercare di arginare questa corsa all’ospedale. E siamo partiti con il progetto test di screening in Alto Alto Adige. Il 20, 21 e 22 novembre abbiamo testato 360.000 persone e siamo riusciti a motivarle. Nelle settimane successive la pressione sugli ospedali, sia in terapia intensiva che non intensiva, è effettivamente diminuita. Successivamente per tenere i risultati del progetto che definirei unici in tutta Europa abbiamo istituito un monitor permanente composto da rappresentanti della popolazione (4.000 persone dei Comuni), e del mondo della scuola ed in questo modo riusciamo, in tutta la provincia. Questi test in Alto Adige ci hanno permesso di identificare moltissimi casi di soggetti asintomatici che erano positivi. Questo ha contribuito in molti casi ad interrompere la catena di trasmissione del virus. In base ai dati quando facciamo le campagne di test manca la parte della popolazione nella fascia dai 15 ai 29 anni. Sono proprio quelli che potenzialmente diffondono il virus tra i genitori ed i nonni, un fenomeno documentato anche dal nostro ufficio igiene. Non fanno il test per timore di doversi mettere in isolamento, sono convinti che per la popolazione giovane il virus sia innocuo, cosa non vera né per loro né per i loro parenti di età più avanzata.

E’ passato un anno dall’inizio della pandemia. Qual è stato per lei il momento più difficile di questa lunga emergenza? Ed anche quali sono stati i momenti più positivi?
Sicuramente uno dei periodi più difficili è stato quello di fine febbraio del 2020. Abbiamo cominciato a vedere innanzitutto le prime conseguenze del virus nelle nostre regioni limitrofe, Lombardia in primis. Ho studiato all’università a Brescia dove ho numerosi contatti e circa 6 giorni prima che il problema iniziasse per noi con il paziente numero uno a Terlano il professore di medicina interna dell’università di Brescia mi ha detto di stare attenti perché stava per arrivare una valanga inarrestabile: ‘Noi non ci credevamo, voi dovete crederci’, mi disse. A quel punto ci siamo attivati con il direttore generale, avevamo già le task force pronte, ed è arrivato il paziente numero uno. Allora facevano 20 test al giorno, complicatissimi da organizzare. Improvvisamente è iniziata l’ondata. Sono un medico d’urgenza ed improvvisamente mi sono trovato a trasportare due pazienti intubati da Bolzano a Merano. Lì mi sono reso conto, toccando con mano, di quello che stava succedendo. Il momento positivo è rappresentato dalla decisione della Direzione generale assieme all’assessore di creare il coordinamento medico Covid-19, in cui il primario è Marc Kaufmann, ed io sono il sostituto, creando una rete tra tutti i sette ospedali. Tutti i giorni ci vediamo in videoconferenza, facciamo il punto sui pazienti, sui posti letto, la valutazione di quello che va fatto, l’ampliamento degli spazi, l’utilizzo di sale operatorie come zone per gestire i pazienti intubati … . A fine aprile 2020 finalmente abbiamo tirato un sospiro di sollievo e lentamente il carico è calato. Purtroppo eravamo convinti che la situazione non fosse conclusa, avevamo già visto in altre parti del mondo che con il caldo il virus veniva rallentato ma non arrestato e poi purtroppo in settembre-ottobre il tutto è ripartito. Sicuramente in maniera molto più controllata ed organizzata. Ciò non toglie che i pazienti c’erano e ci sono, molti più della prima fase. 540 pazienti ricoverati nel punto massimo tra noi, gli ospedali, le terapie intensive e le cliniche convenzionate. Temo che negli ultimi mesi la mancanza di “drammaticità”, delle tende di pre-triage al pronto soccorso e di questa sorta di militarizzazione abbia tolto nella popolazione un po’ di coscienza della dimensione del problema. E quindi è importante tenere sempre informata la popolazione.

Cosa si sente di dire al personale sanitario impegnato da mesi su questo difficile fronte?
Stiamo affrontando una pandemia che sino ad un anno fa nessuno avrebbe mai immaginato. Con carichi di lavoro incredibili, le notti senza sonno, la conta dei posti letto … Il momento è difficile per tutti, per il personale infermieristico e medico ed anche quello amministrativo che si è attivato immediatamente per assumere il più rapidamente possibile un congruo numero di  medici ed infermieri. Purtroppo l’emergenza non è finita. C’è il vaccino, è questa la luce alla fine del tunnel. Il messaggio che voglio dare è di farsi vaccinare ad ogni costo per ridurre la trasmissibilità dell’infezione e soprattutto pian piano tornare alla vita in un mondo completamente diverso da quello precedente.

Vuoi di più? Segui LP su Facebook e Twitter oppure ricevi la tua copia direttamente a casa!